Un caro saluto a tutti i presenti.
Ringrazio molto Anne-France Aguet per la sua fiducia e amicizia. Rosa Pierno per essere sempre presente a questi nostri dialoghi tra artisti, tra i diversi linguaggi delle arti, in questo oggi rumoroso e compresente su tutto, ma spesso dimentico di forze primarie. Ecco ciò che intendo: sono commossa di abitare questo spazio espositivo assieme alla scultrice e architetto Anne-France, in dialogo con le sue sculture nate in questi ultimi anni, dove con assiduità il nostro rapporto di amicizia e di scambio sul lavoro si è fatto appassionante poiché frequente, significativo e regolare. Ci ha davvero accompagnato il tempo in questi ultimi tre anni, data a cui risale la nostra prima esposizione in apertura del centro culturale areapangeart a Camorino. Dove era presente per amicizia anche Claudio Farinone, coinvolto da allora che ringrazio, e questa sera in modo particolare perché qui con Max Pizio, e perché hanno letteralmente registrato i suoni in sala o meglio le loro musiche con un’improvvisazione ad hoc. Tra Sax e Clarinetto e le chitarre imprescindibili da Claudio.
Mi commuove perché forme e moti, tensioni e dualità, incroci e sodalizi sono divenuti tratti, frammenti, curve, colori e volumi. Perché in modo misterioso, ma autentico, ci siamo parlate e ascoltate e questa esposizione ne parla, e ne attesta il grande risultato.
Ma mi scompiglia anche per la vicinanza, la sensibilità, e il senso e sentiero profondo che questo rapporto a due, mai scontato, sempre perpendicolare, a volte binario, mai totale, ha saputo tracciare: mi rapisce e sottrae, lì dove la compresenza dei due linguaggi si sostanzia, provoca, mette in gioco i nostri sensi, la nostra sensibilità in dialogo con la nostra vita.
Una pietra ha sostanza e ha il volume, è presente nello spazio perché lo occupa integralmente, inerentemente alla sua forma e dimensione. Un opera pittorica, è materia che si forma per stratificazione, ma rimane presenza in superfice, e tali molteplici piani non sono tattilmente recepibili in tutto il loro percorso, o leggibili: vivono dell'ambiguità di una costruzione, strutturazione mentale, che sempre necessita d’immaginazione.
Vale anche per la scultura, ma essa ha un proprio corpo a tutto tondo, c'è è tangibile è forma formata e concretamente presente.
Ho condiviso questi pensieri, queste doppie presenze, con Rosa. Ho parlato di questo eco profondo, o visione interiore, la mia dualità dentro fuori anche come impossibilità. In Anne-France colgo corpo effettivo volume come plasmata superficie, intensità come adesione, anche se mi ricordano anche organi interiori avvolti, essi comunque sono dichiarati per forma e presenza. In me a volte tutto mi sfugge.
Ma ora lascio filo e meandri di questo incedere a Rosa Pierno che con la sua chiarezza e logica toccherà crinali sorprendenti a loro volta, ma sempre indirizzandoli, come ricerca e contributo, verso una loro necessaria sistematizzazione. Grazie Loredana Müller
PRESENTAZIONE DI ROSA PIERNO
Anne-France Aguet e Loredana Müller: un dialogo oltre-natura.
Per comprendere il dialogo fra Anne-France Aguet e Loredana Müller, proposto nella mostra “Duo in marmo e in carta” al centro culturale areapangeart, è necessario analizzare le opere con attenzione al fine di emergere i punti di contatto, ma anche di contrapposizione, trattandosi di opere in marmo e in carta. Sembrerebbe che il marmo crei un campo oppositivo con la carta. Eppure, siamo proprio certi che il peso non sia qualcosa, almeno nel mondo dell’arte, di relativo? Il peso non è separabile dalla forma. La forma non lo è dall’energia. E vedremo come, in entrambe le artiste, anche l’equilibrio non sia che uno stato apparente, o meglio, precario e metamorfico.
Osserviamo le candide pietre di marmo di Carrara, con le loro soffici curve. Sembrano richiedere un gesto che le faccia roteare, morbide e affusolate, o allontanare per scorgerne i lati nascosti. In tal guisa, il movimento viene a essere un elemento cardine nella ricerca della Aguet. Nel senso che la forma viene recepita in un processo che non termina: non si addiviene al riconoscimento di un’unica forma, ma ci si focalizza sul suo muoversi e tramutarsi, assumendo essa innumeri profilazioni, non fissabili.
E le carte? Talmente delicate da far declinare il desiderio di sfiorarle. La loro fragilità diviene per noi preziosità: un velo di protezione, infatti, sembra issarsi naturalmente tra il nostro sguardo e la mano. Eppure, tale carta appare anche inamovibile, depositaria di sedimenti, inchiostri, pigmenti: resa pesantissima da stratificazioni e velature. Ecco, dunque, che l’arte ha questa prodigiosa capacità di modificare la materia, di cambiare la percezione che ne abbiamo, quando la sostanza sia passata tra le forche caudine del processo artistico.
Ma entriamo nel dettaglio osservando da vicino le sculture di Anne-France Aguet, per la quale la natura fornisce solo la materia, mai le forme. Che sia marmo di Carrara, di Arzo o della Val di Blenio in Alto Ticino, la forma si colloca su un piano di pura energia poiché la scultrice cerca le direttrici del moto, gli snodi nei quali la pietra inverte il suo flesso ondoso e scatta, si torce e si libra. Oppure, come nella splendida coppia in marmo rosso di Arzo, s’imbarca, si flette, s’inarca. O, ancora, si piega, si erge, si distende e guizza. E nelle grandi sculture singole, in marmo statuario di Carrara, la superficie scivola senza incontrare resistenza e, incanalando lo spazio, lo rende visibile. Abbiamo utilizzato verbi che attengono all’espressione cinetica: la materia non è mai solo materia.
Le sculture in coppia si specchiano, echeggiano una nell’altra, amplificandosi e vicendevolmente trasformandosi. Le variazioni contrastive o complementari ci portano alla mente ulteriori possibili disposizioni. Una si annoda, l’altra si snoda, accogliente, una si arrotonda, l’altra si assottiglia. Equilibrio calibrassimo che ci spinge a spostare le pietre in dialogo, anche impercettibilmente, pur di ottenerne una nuova meravigliosa configurazione, in un rinnovato strabiliante equilibrio. Interagiamo con queste sculture, vogliamo farle nostre per esperire pesi ed equilibri, posizioni e valori cromatici, immersioni nella luce e nella penombra. I contorni ci sfuggono costantemente, le ombre scivolano inesorabilmente sui piani illuminati o viceversa, mostrando un mondo inafferrabile a causa della sua ricchezza. La realtà, per contro, ci sembra mille volte più povera e astratta! Non sculture immobili, dunque! Forme dinamiche, sguiscianti, trasformiste; familiari e desuete, le quali ci sollecitano a conoscere le innumerevoli curve che generano. Uno dei dati più sorprendenti da rilevare, dunque, è la molteplicità, l’infinità delle curve che si possono recepire in arte, non solo in geometria.
Si può affermare che ognuna delle possibili curve che percepiamo con lo sguardo e il tatto è una conquista spaziale. La scultrice procede per gradi, cerca la forma eliminando la materia, disegna con la grafite ulteriori curve, scava per determinare estroflessioni o introflessioni sulla superficie setosa al fine di far scorrere o arrestare la luce. La straordinaria modellizzazione sembra ottenuta non più nel marmo! Una forma è sempre in relazione al masso da cui è stata tratta. La scultrice, sapientissima, ha dialogato con l’informe e lo spurio per giungere alla perfezione possibile, la quale non perde perciò mai il rapporto con la contingenza. È il puro in relazione all’ammasso, alla concrezione originaria, da cui la forma è stata cavata. La bellezza delle forme scolpite non perde mai la relazione con la materia grezza, ma certo per mai più ritornarvi!
I rimandi alterni di ombre e di luce, con le ombre che si addensano come pozze stagnanti e le luci che si aprono a raggiera, sventagliando riflessi sulle lapidee curve, i quali ritmano i volumi in relazione al nostro muoverci nello spazio, emergono dall’inesistente e si danno come la cosa più certa che ci sia! Equivalente, in questo, al disporsi preziosissimo delle cangianti coloriture dei piani tessuti dal passaggio insistente dei pastelli e degli inchiostri sulle carte di Loredana Müller, la quale, operando sovrapposizioni e velature, rende preziosa la più usuale delle materie: quella vegetale.
Quando poi interviene il colore a caratterizzare la grana naturale della pietra, scelto dalla Aguet, lo sguardo pare si plachi e si approfondisca in un punto, rendendo più stabile l’equilibrio dell’opera. E anche nelle opere della Müller, con quel mirabile istante fissato in eterno su un materiale friabile: estremo punto di sintesi, turgore e armonia inamovibile, i colori appaiono enfiati come se avessero un volume e la profondità pare di vederla trasparire sulla superficie. Quanto pesano le carte della Müller, quanto sono leggeri i marmi della Aguet?
I riflessi della pietra verde scuro scolpita dalla Aguet sembrano riverberare nelle opere della Müller, in particolare nelle fronde de “L’albero notturno” (pastelli e inchiostri su carta su tavola). Ora, che la Müller fabbrichi da sé i suoi pigmenti andandoli a prelevare in val Morobbia è noto, ma qui si ha come una rifrangenza elevata al quadrato. La natura è convocata a chiare lettere. Non solo perché l’artista si rapporta con la natura per cogliere in se stessa la visione da essa prodotta in uno scambio interno-esterno, ma soprattutto perché sbaraglia tutte le usuali questioni legate all’imitazione e alla rappresentazione. Ciò accade perché la Müller cerca una relazione di tipo simbiotico: vi è la condivisione di un medesimo afflato che si modula sul ritmo del respiro. Abbattere la soglia fra interno ed esterno vuol dire coesistere: esistere assieme attraverso la percezione, la quale modifica anche la struttura dell’oggetto percepito, oltre che, naturalmente, il soggetto. Nell’esposizione, l’albero che noi “intravediamo” è un fiotto di linfa che traspare tra il rigoglioso accrescimento delle foglie. La luce, dato del tutto innaturale, non è localizzabile, sembra sorgere dagli stessi elementi arborei, quasi una pulsazione energetica. Ecco il senso della fusione a cui volevamo dare più precisa definizione poc’anzi: è quello dell’artista e della natura come medesima cosa, la quale è visione del tutto originale.
“Respiro” e “Crescita” (pastelli e inchiostri su carta incollata su tavola) sono due opere nate dall’osservazione della crescita del bambù. In entrambe, lo sviluppo rapidissimo si svolge come sotto i nostri occhi abolendo persino la dimensione cronologica. La visione pare svolgersi in una perenne simultanea. “Respiro” ha colori più scuri e opachi e s’intravedono gli anelli del fusto, i quali si aggiungono l’uno all’altro: il colore diviene esso stesso forma e costruisce la visione non astrattamente. “Crescita” é eseguita con velature maggiormente luminose, rinverdendo il ricordo dell’acqua presente in ogni tramatura vegetale: il colore a tratti si ramifica, gocciola, intride, si essicca e ne percepiamo i residui. È puro moto. Al colore nulla risulta impossibile, e questo non per risolvere con un colpo di spugna la diatriba tra linea e colore, ma per situarsi nella pienezza del colore, della sua plasticità. E qui sfioriamo un altro punto di contatto tra la Aguet e la Müller: la plasticità non è data una volta per tutte, è un processo continuo, sempre in fieri.
La squisita sensibilità per il colore della Müller non la si coglie solo in opere come le tre solarissime della serie “Nel bosco”, intitolate “Alba, “Pomeriggio”, “Meriggio”, in cui i pastelli si sovrappongono attraverso una tassellazione vibratile dello spazio, dando vita - con rialzi di cangiante luminosità - a un moto tra le tonalità sottostanti, ove la sfocatura funziona come un dubbio sulla forma. Viene da pensare che se guardassimo con gli occhi dell’artista non vedremmo oggetti, ma nugoli di colore affetti da moti vibratili. Il che ci stimola a pensare in termini non convenzionali: nulla di dogmatico o di fisso dobbiamo credere che esista nel reale e nel nostro modo di percepirlo. Ecco anche detto perché gli artisti svolgono una funzione insostituibile per coloro che artisti non sono.
Una visione, pertanto, che dissalda la forma per trattenerne solo le infinite rifrangenze: quasi un pulviscolo di pagliuzze e tasselli che scompongono il mondo in contrasti e armonie: sorta di comune energia che s’irradia dalle profondità del cosmo. Natura? Forse, un oltre-natura, qualcosa che sta al fondo e da cui continuamente emergono le sue infinite manifestazioni filtrate dall’artista. Ma colore può anche rapprendersi, solidificarsi in tagli di luce, in profondità materiche e la sostanza far capolino dai recessi dell’oscurità, addensandosi grazie alle ombre, come vediamo in “Crescita d’erba” (pastelli su carta su tavola).
Nella Aguet, il colore è una scelta tra nuance a volte sottilissime: le vene bianche o grigie di alcune pietre o il rosso, morbido e aranciato, delle cave di Arzo, o le pietre nere. Il colore, modificando i riflessi, torvi o lattescenti, partecipa al gioco indotto dal movimento spesso contrastando la percezione delle forma. È un equilibrio nel quale la forma non cede, non si arrende al movimento, persiste nella retina e rende il moto una caratteristica che partecipa alla creazione della forma. Con ciò desideriamo mettere in rilievo come un sottilissimo gioco di equilibri e dissimmetrie ottenuti lavorando con la grana materica, il colore e la forma vada a innescare il rapporto forma-moto, rendendo “impossibile” la conclusione della partita. La scultura della Aguet rende lo spazio una funzione della forma in moto.
E proprio alla fine di questa nostra analisi, vogliamo aprire un inciso su quello che l’arte può darci oggi, ancora lavorando nell’alveo della tradizione: ombra, illuminazione, forma, movimento, disegno, colore sono gli strumenti con i quali si possono mostrare le evidenze nascoste del visibile. Col marmo di Anne-France Aguet, con le carte di Loredana Müller.