Un saluto a tutti i presenti, ringrazio Laura Fumagalli e Carolina Maria Nazar per aver contribuito con le loro opere e la loro presenza

a questa nuova pagina in areapangeart. ORME D'OMBRE, SOGLIE una minuta riflessione a riguardo,

perché poi lascio a Gilberto Isella-che ringrazio, la presentazione vera e propria, nella sua cadenza, letteraria,

psicologica ma soprattutto nella dimensione creativa/poetica. ORME :

segni, impronte, che umani e animali lasciano al loro passaggio.

Una traccia che denota un piccolo peso, una presenza passata. Orma anche spirituale/ seguire le orme.

OMBRE un corpo opaco illuminato genera un ombra, solo un fatto percettivo?

Oppure ombra come inconscio:

Jung diceva appoggia alla tua faccia una mano percepisci l'ombra,

nascondimento, luogo delle ossessioni, o degli incubi.

SOGLIA pensiamo ad una porta ad un ingresso,

superare una soglia...appartiene anche al passo al piede, il superare, il varcare andare oltre.

Le soglie erano di pietra...Forse accettare accettarsi oltre il tempo.

Questa esposizione voleva intitolarsi

OLTRE IL NERO.

Le tre artiste coinvolte amano l'incisione, le tecniche che comporta nella dimensione calcografica,

La maniera nera, la cera molle, l'acquaforte , l'acquatinta, la maniera a lapis, la pece Greca.

Credo chiara la volontà delle tre artiste di trasformare, ogni energia umana anche la meno felice,

in energia, trasformarla vuol dire accorgersi di profonde realtà, che dipendono da compresenze, oltre il buio.

La luce, non ci sarebbero ne la forma, ne il segno, se non potessimo oscillare, dubitare, creare attraverso il sogno,

il corpo, il tempo della materia.

È comprendere, prendere A se il fatto circolatorio d'ogni energia, dalla più alta alla più bassa;

è trasformando che diveniamo esseri umani, dall'osso sacro al pensiero-parola,

DAL PRE PENSIERO ALLA visione, DALLA VISIONE AL SEGNO al corpo d'ogni seme, d'ogni suono.

Ringrazio Luciano Zampar che state ascoltando, ha realizzato i suoni in sala,

ha cucito timbricamente, le apparenti differenze e quelle affinità, quale volontà di dare un tempo,

un ritmo dall'atemporale alla temporalità...toccando pagine, album, carta, tele, serie, tecniche, visioni, equilibri, quasi geometrie,

citazioni e così via. Quell'onda che no non ci porterà via.

In sala a destra della soglia un testo di Alessandro Margnetti che ringrazio

unitamente alla riflessione di Vincenzo Guarracino qui alle nostre spalle.

Ora un momento oramai di tradizione d'ascolto ai suoni. E a seguire la parola a Gilberto Isella.

 

Gilberto Isella Orme d’ombre soglie

 

 

Il titolo Orme d’ombre soglie non solo forma un nodo fonetico, per via delle sue ‘oscure’ assonanze interne, ma anche e soprattutto un nodo semantico, perché i concetti in causa appaiono in diversa misura interrelati. Nella mostra che ho il piacere di presentare, queste idee-guida tradotte in segni visivi attraverso olii, acquarelli e tecniche miste, trovano sviluppi significativi nelle opere sia di Laura Fumagalli che di Carolina Maria Nazar e Loredana Müller, in base a scelte stilistiche inconfondibili. Ammireremo così il rigore strutturale e geometrico di Laura, il viaggio nell’immaginario figurativo proposto dai mirabilia di Carolina e la festa rituale e cromatica, tutta in verticale, di Loredana. Per ciò che concerne i lavori di Carolina e Loredana, inoltre, assisteremo a un dialogo sotterraneo tra Occidente e Oriente – grazie alla condivisa disponibilità di ascolto verso un’arte sans frontières - mentre Laura tende a confermare i canoni e gli assunti dell’arte occidentale, seppure declinandoli in modo creativo. La soglia, intesa in senso lato, potrebbe fare da comune denominatore, dal momento che essa sottende un’idea di aspettativa, di passaggio, il tutto all’insegna di un’inquieta utopia. E l’ombra? Nella cultura occidentale moderna, abitata dalla crisi del senso, dalla tematica dell’abisso e dell’inconscio, l’ombra assume il ruolo di un antisipario. Un telone oscuro speculare ma decisamente antifrastico rispetto al sipario platonico della luce.

Platone voleva liberare l’uomo dai condizionamenti imposti dalla caverna, là dove il percepire è ingannevole, per farlo ascendere al mondo delle idee. A questa ascesi verso una meta salda e gratificante la modernità contrappone la fenomenologia frammentaria degli indizi, giustificando al contempo il valore ermeneutico della soglia e dell’ombra. Mi richiamo in particolare all’antiplatonismo, tipicamente novecentesco, di una Maria Zambrano, che poteva dichiarare: “La caverna custodisce lo stupore estatico dinanzi alle cose”. Tale stupore, trovando fondamento nelle propaggini dell’invisibile, in anfratti dove prosperano ombre solidali, consente il moto perpetuo della poesia e certo anche dell’arte. Scriveva Giorgio Caproni:

 

……….. un’ombra

che stringe la mano d’ombra

a un’altra ombra…

(In ombra…)

due ombre che senza lasciare ombra

d’ombra, nell’ombra

formano un patto…

(D’ombra…)

 

Quanto all’ orma o alla traccia, categorie ascrivibili al lavoro della memoria, esse stridono con la sensibilità extraeuropea, in particolare quella dell’Estremo Oriente. Il saggio taoista o zen, ad esempio, nel suo affidarsi all’erranza si guarda bene dal lasciare orme, poiché il viandante non abita in nessun luogo e non conosce mete, sospeso com’è sulla terra, per così dire, in uno stato d’imponderabilità. Chi non calca il suolo non lascia orme. Scrive Zhuangzi: “La mia volontà non ha scopo, e io non so dove arrivo”, “Vagabondo qui e là e non so dove vado a finire”.

Considerazioni diverse, invece, vanno fatte per il pensiero induista, su cui Loredana ripone lo sguardo. Le sue creazioni visive, energertiche come di consueto, questa volta si presentano nel segno sfavillante della luce e del colore più che in quello dell’ombra. Lo spettro cromatico qui viene mobilitato a fondo. Mi riferisco al trittico Kundalini, un ciclo in divenire al centro del quale troviamo un’imponente tela suddivisa in 42 riquadri e orientata decisamente sull’asse verticale. Ispirandosi ai canali (nādi) del corpo yogico e alla dea Kundalini, Loredana vuol sollecitare l’energia che scorre nel cosmo, conosciuta col nome di shakti. Nel Tantra Yoga, Kundalini ossia la kundali (la ricurva), assume le sembianze di un serpente. Raggomitolata secondo alcuni nella regione perineale, la troviamo inizialmente immersa nel sonno. Quando al risveglio - uno stato di soglia - la sete di conoscenza l’assale, inizia il suo impetuoso moto a spirale attraverso i sette chakra o ‘centri’-‘cerchi’ del corpo, fino a raggiungere il luogo della mente. Possibile chiamare in causa, in questo contesto visivo-fisiologico, anche le doppie eliche del DNA, in veste di farfalle policrome. La rappresentazione spiraliforme della vita, che trova un suo incunabulo nella dea indiana, si rispecchierà poi per vie traverse nell’estetica barocca, incentrata appunto sulla spirale e il movimento, per ritrovarla ancora, seppur in un quadro culturale del tutto diverso, nel pensiero di Bergson, attraverso i concetti abbinati di ‘slancio vitale’ e ‘evoluzione creatrice’.

Il particolare assetto compositivo che caratterizza invece i lavori di Laura Fumagalli, elaborati a partire da un uso rigoroso delle forme geometiche elementari, quadrato e rettangolo in primis, concede poco al gioco delle curve. Linee curve compaiono caso mai a ridosso dei costrutti di base, col risultato di creare movimento. L’estetica implicita nelle sue Velature - titolo che ammicca alla Lichtung heideggeriana - si appoggia, offrendone una versione indubbiamente aggiornata, a quella ricerca di una “sensibilità pura dell’arte” auspicata da Kazimir Malevič attraverso il suprematismo. Valga, come modello, l’arcinoto “Quadrato nero” dello stesso Malevič, evocante il grado zero del visibile, alle soglie appunto della Lichtung. Laura, da parte sua, privilegia la dialettica bianco/nero, ma convocando discretamente nel corpus altre tinte, quali l’azzurro in varie tonalità. Mediante ricorrenti sovrapposizioni e incastri, sfruttando con abilità le tecniche del collage, garantisce inoltre quell’illusionismo prospettico che per contro fa difetto nell’astrattismo delle origini. L’ombra ha una parte di rilievo in tutto ciò, e in ragione della sua ambivalenza semantica può assumere valore di soglia. Tralicci, presumibili balconate o finestre, perfino grumi oscuri nebulosi costituiscono infatti simbolici ponti tesi a un altrove dello sguardo, verso territori che potremmo definire vergini.

La poesia, quanto al tema della soglia, si è prodigata visibilmente nel passato, da Omero e Virgilio alle anonime “Lamine d’oro orfiche” (sempre le soglie dell’Ade), esplorate dall’amico Vincenzo Guarracino. La soglia forse più celebre della poesia italiana novecentesca la troviamo in apertura a La pioggia nel pineto di Gabriele d’Annunzio:

 

Taci. Su le soglie

del bosco non odo

parole che dici

umane; ma odo

parole più nuove

che parlano gocciole e foglie

lontane.

 

Lo slancio panico e il tono misterico di tali versi, che sanno d’antico, è fuori discussione.

Di tutt’altra temperie, tragica in questo caso, è la soglia in Paul Celan, spesso di ardua interpretazione, come nella raccolta Von Schwelle zu Schwelle. Una soglia, per cominciare, che ci addita il luogo dei valori familiari perduti. Al di là di essa c’è un mondo trascendente e inafferrabile, che già la notte lascia presagire nominando “chi entra e chi esce”. Si tratta del regno delle ombre e dei morti, ma anche del regno della parola, poiché ogni parola è portatrice di ombrosità profonda e lutto. Leggo le prime tre strofe della poesia Gemeinsam/ Insieme:

 

Poiché già la notte e l’ora,

che nomina sulle soglie

chi entra e chi esce,

 

approvò quanto facemmo,

poiché nessuno, come terzo, c’indicò la via,

 

ecco che le ombre non verranno

separate, qualora ci attenda

più di quanto oggi s’annunciò.

 

Noterete qui la valenza per così dire iniziatica dei verbi ‘nominare, indicare, annunciare’.

Passo ora a Bonnefoy. Scrivere, per il poeta francese Yves Bonnefoy, significa attestarsi su una soglia e cercare di varcarla per sciogliere l’enigma dell’”invisibile”. Questa speranza si rivela vana, poiché la soglia è solo un inganno: noi viviamo Dans le leurre du seuil. Ciò nonostante l’inganno dei sensi, già in atto nella caverna platonica, rappresenta per il poeta francese anche e in modo paradossale quella leva, quel volàno che ci permette di immaginare e creare poeticamente un nuovo statuto del mondo. Si trattta dunque di una condizione preliminare dell’arte, di un punto di partenza. Ma che per essere credibile deve accompagnarsi a un urto, sopportare uno sforzo quasi disumano. Mi limito a proporvi alcuni frammenti:

 

Urta

Urta per sempre.

 

Nell’inganno della soglia.

Alla porta sigillata,

Alla frase, vuota.

Nel ferro, ridestando

Solo queste parole, il ferro.

Nel linguaggio, nero.

 

In un altro passo Bonnefoy lascia intendere che la funzione dell’artista è quella del traghettatore, quella del Virgilio dantesco insomma:

 

Più in là del cane

Nella nera terra

Si lancia gridando il traghettatore

Verso l’altra riva.

 

A mia volta, nel libretto Trasparenza Trascendenza segnalavo il legame indissolubile tra soglia e ostacolo:

 

ed ecco/ un coimplicarsi di ringhiere/ ostili e necessarie/ come ogni soglia che ardisca.

 

 

E veniamo, per concludere, a Carolina Nazar. Lo scenario offerto da lei mi sembra il più idoneo a interpretare il motivo dell’orma. L’orma e le sue ombre che inquietano. Quasi l’esatto contrario della soglia, poiché se la soglia apre a un non ancora, l’orma o la traccia testimonia il già stato, ne riaggiusta le coordinate nell’ordine del fantasma. In questo caso associandolo al monstrum, ossia a ciò che mostrandosi ci disorienta in quanto ha a che fare con la morte e la nigredo alchemica. Al riguardo è giusto anche ricordare quel fenomeno inconscio che Freud denominava unheimlich, il perturbante. Aderendo con sensibilità personale all’estetica del postmoderno, Nazar fa dell’arte al quadrato, spesso all’insegna di un patchwork vòlto a decostruisce l’integrità semantica e simbolica dell’originale, con il risultato di smorzarne chiaramente gli effetti orrorifici. Di renderlo inoffensivo, per così dire riducendolo a ludus, eludendo intenzionalmente l’allegorimo rinascimentale praticato ad esempio dalla cerchia di Dürer e codificato rigidamente nella Iconologia di Cesare Ripa. Nelle Wunderkammern di Carolina sfilano figure che tutti riconosceranno, legate sia al mito classico che all’immaginario medievale, vedi il topos dell’homo sylvestris. Immagini ormai ‘inabissate’, dove in definitiva lo spaventoso si stempera nel gaio.

INVENZIONE DELL’OMBRA di VINCENZO GUARRACINO

"Dice la verità chi dice ombra" Paul Celan

Vivere nell’ombra, ma anche trarre dall’ombra, seguire come un’ombra ma anche restare nell’ombra; ridursi ad essere l’ombra di un altro, o, peggio, di se stessi, fino a dar corpo o a correre dietro ad essa se non addirittura ad aver paura della propria stessa ombra.

Nel cono d’ombra – è il caso di dirlo – di questa metafora, è fiorita una così ricca fraseologia che c’è solo l’imbarazzo della scelta quando si voglia definire una situazione o un atteggiamento.

Ma che cos'è l'Ombra? Stando al dizionario, con Ombra si intende la diminuzione o assenza di luminosità dovuta a un corpo opaco esposto tra la sorgente di luce e un oggetto o una zona, che la proietta, scompare del tutto per lasciare spazio solo alla sua, spesso inidentificabile, presenza e sostanza: al suo contorno e profilo, alla sua “altra” faccia, più buia ma anche paradossalmente più netta.

Ma non solo questo: Ombra è una metafora ricca di generose risorse applicabile negli ambiti più diversi, dalla fisiologia, alla psicologia, fino persino alla politica, dove il sintagma “governo ombra” promana una luce ambigua e sinistra, niente affatto rassicurante, per definire una situazione o un atteggiamento.

L’Ombra, insomma, ci si appiccica addosso e non c'è verso di scrollarsela: non diversamente di quanto ci capita col destino, che, per quanto ci si affanni illuministicamente a rinnegarlo, non è detto che non ci segua, appunto, come un'ombra.

Ed è proprio questa congiunzione destino e ombra, quella che forse più fortemente ci può intrigare e inquietare: di entrambi sappiamo e proclamiamo la loro inesistenza e immaterialità eppure sono lì, col loro peso conturbante e un tantino iettatorio, fino al punto di diventare la metafora e la cifra, per scelta o per condanna, di una vita.

Ombra e destino son ciò che ci portiamo addosso, senza potercene liberare, come ciò che decide dell’unicità e presenza critica di ciascuno: e come potrebbe essere altrimenti se l’etimologia stessa ne indica, per la prima, l’indissolubile connessione con il suo portatore (dalla famiglia lessicale ONDH, “ciò che è soggettivo”) e, per il secondo, il carattere di inamovibile fermezza e solidità, connesso con l’idea di una soli-da singolarità (stante la sua discendenza dal verbo de-stare, allusivo per il prefisso de- ad uno “stare” sempre “lontano” e ben caratterizzato rispetto ad un altro per di più “desto”, ad occhi cioè ben aperti)?

In un mondo che esalta e patisce una inarrestabile e disgregata pluralità, la loro unicità e differenza dà prova di ammirevole fedeltà, davvero tassianamente degna “d’un chiaro sol” e “di un pieno teatro”, quale è quello “destinato” giusto all’ombra da artiste virtuose di una concettualità angelica e teatrale della forma dell’Ombra, come Laura Fumagalli, Carolina Maria Nazar e Loredana Müller, intese ad accettarne la caducità per trasformarla in Invenzione, in punto di partenza che dalla carta generi un equilibrio nuovo.

Poche volte un “triangolo” è da salutarsi con altrettanto compiacimento, con buona pace di ogni scetticismo.

Il risultato è infatti maggiore alle attese facendo emergere dalla ricerca delle sue tracce segni, tra storia e memoria, che trovano riverberi anche in poesia da cui emerge alla luce l’Altro, che abita ciascuno, “quell’estraneo migrante quale è il sogno, l’archetipo, i simboli, i fatti culturali d’ogni luogo e tempo”.

È a Lui, alla sua muta presenza, che si volge l’”invenzione” delle tre artiste.

Non meno di loro, alle stesse semantiche nozze, in molti si son rivelati pronti a sciogliere convenienti imenei, tali da evocare le immagini più esclusive e raffinate, quali solo gli angeli e i poeti sanno corteggiare e decantare, a testimonianza del suo carattere quanto mai urgente nell’immaginario (di tutti, umani e celesti). E poco importa se non sempre è ben perspicuo il rapporto tra causa ed effetto: quel che conta è il gesto.

Come sempre.

E poi si sa che gli dèi, come si legge nelle Upanisad, “amano l’oscuro e detestano l’ovvio”.

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C’è un fiume, ci sono acque, si immaginano figure che si immergono ed emergono, scambiando parole, “semi di tutte le tenebre” che hanno attraversato…

Nel testo di Massimo Scrignòli tutto questo esiste per ipotesi, per fede: l’immagine di un “fiume” è emblema di purificazione e rigenerazione e vuole dire di una verità intravista, che deve essere creduta; come un’”onda” di senso e di autenticità che chiede di riemergere dall’indistinto e dalla dimenticanza per apparire come un miracolo di luce capace di dissolvere finalmente “tutte le tenebre”, destinata a dare il senso di un voler continuare a resistere e a esistere: come verità oltre l’”oscuro” e l’”ovvio”.

 

 

Lì, nel fondale del fiume, appena

Mobile, immobile, indicibile. Nel fondo.
Lì, nel fondale del fiume, appena
pronunciato sul versante dei riapparsi.
Emerge ogni giorno, dall’acqua
di ogni giorno, l’anfratto di un dio
dimenticato; poi, con voce modesta, forse
qual fu da l’angelo a Maria,
smuove verso l’onda. Là
dove un uomo, a ogni nuova ora,
raduna i semi di tutte le tenebre.

 

 

 

 

(MASSIMO SCRIGNOLI, Lì, nel fondale del fiume, appena…”, da Lupa a gennaio, 13, 2019)