STRATIFICAZIONI E SUPERFICI di Cecilia Liveriero Lavelli

areapangeart 14 aprile – 23 giugno 2025

Quando ci si avvicina a una mostra come questa, che attraversa “Stratificazioni

e superfici”, si entra in un territorio fatto insieme di densità e di vibrazioni sottili.

Non è una semplice esposizione di opere: è un paesaggio di forze, di tensioni, di

esplorazioni che si sfiorano, si accostano e si ritraggono.

Qui, le superfici non sono mai solo quello che sembrano.

Le ceramiche di Michela Torricelli sembrano pulsare dall’interno, come se

qualcosa — un respiro, un’energia, una memoria — stesse per uscire, per farsi

vedere, rompendo la quiete della forma.

Nelle sue Nubie, sembrano essere gusci, semi, uova ad aprirsi a un archetipo che

precede la parola, a farsi spazio nella materia come organismi che stanno per

nascere. È un movimento che va dal centro verso l’esterno, un’espansione – ma

anche una contrazione – che conserva in sé il mistero della sua origine.

Le ceramiche di Linda Fontanelli — in un dialogo che è fatto proprio di differenza,

un moto dall’interno all’esterno per Michela, e dall’esterno verso l’interno per i

lavori di Linda — sembrano portare su di sé le tracce di una lenta erosione. Come

il cuoio lavorato, consumato dal tempo, le sue forme raccontano una materia che

si lascia attraversare, scalfire, aggredire dalla vita. Eppure, è proprio questa

vulnerabilità a generare forza.

Il suo modo di trattare la ceramica conserva il ricordo della corteccia, e anche

della pelle: pelle animale, ma quasi pelle del mondo. C'è qualcosa di antico,

artigianale, e insieme profondamente consapevole, che affonda le radici anche

nella sua storia personale: una storia che passa dalle maniei genitori che

lavoravano il cuoio e arriva fino a noi attraverso un gesto che è insieme delicato

e implacabile.

Magda Ragazzi lavora sulle superfici come chi gioca con i confini: tra pieno e

vuoto, tra piccolo e grande, tra gesto e forma.

Le sue opere sembrano accadere nello spazio come presenze che si espandono

e si contraggono, quasi respirassero. In alcuni lavori, è il dettaglio minuto a farsi

strada, a prendere il sopravvento, altrove la materia si contrae, si curva, si lascia

plasmare in pieghe morbide.

È un lavoro che viene da lontano, da anni di frequentazione della materia, da una

manualità che non chiede il permesso: agisce.

 

Accanto a loro, e insieme a loro, si muove Loredana Müller, in una dimensione

che è tanto di presenza quanto di ascolto.

I suoi lavori bidimensionali non fanno da sfondo: dialogano. Portano con sé strati,

pigmenti, parole, tempo.

Sono pitture che trattano la superficie come un corpo da accarezzare, da

incidere, da attraversare.

Ci sono, nelle sue tele e nei suoi libri d’artista, segni che sembrano affiorare dal

silenzio, parole che sedimentano, vibrazioni che risuonano nel ritmo stesso

dell’allestimento.

In particolare, nella relazione con la tela di Loredana Punti neve dalla finestra,

che nella saletta prende luce, ma che qui torna a farsi sentire con grande

evidenza, i lavori più recenti di Michela sembrano emergere come concrezioni

silenziose, formazioni organiche che crescono da una materia interna, che si

muove, spinge, pulsa.

Le superfici chiare, trapuntate da rilievi e cavità, suggeriscono un’energia in atto,

una crescita — non naturalistica, ma interiore — che prende corpo come una

presenza in trasformazione, che sboccia come spinta da un’urgenza che non si

può frenare, potente e silenziosa.

Non sono evocazioni letterali, ma forme che sembrano avvenire sotto i nostri

occhi, come se la ceramica fosse il risultato visibile di un processo invisibile, un

moto di emersione che non ha bisogno di spiegarsi.

E quelle tele, sopra —vibrazioni di luce, come neve o particelle d’aria — non sono

sfondi, ma cieli porosi che risuonano, epidermidi da cui qualcosa di volta in volta

si stacca e prende forma.

Gli “scudi” di Linda, come sospesi tra protezione e esposizione, parlano di uno

spazio che non può essere neutro.

Sono forme che hanno subito il tempo, che lo raccontano: sembrano segnate da

una lenta erosione, come se qualcosa — di minuscolo, silenzioso, insaziabile —

avesse pazientemente intaccato la materia.

Linda lavora sugli strati di argilla con lo stesso rispetto con cui si lavora il cuoio.

Li sbatte, li pressa, scalfisce, incide, piega. Non impone, ma accompagna la

trasformazione.

I suoi volumi non esplodono: si fanno strada per assottigliamento, per

svuotamento, per resistenza al pieno. Vengono erosi dall’esterno, come tarli sul

legno, con voracità minuscola e forza dirompente.

 

Alcune sue forme sembrano già corrose, ruvide, altre appena sopravvissute. Ma

è in questa fragilità che si concentra tutta la forza del suo gesto: un gesto che

non mostra, ma lascia indovinare.

E in questa postura del non detto, la materia trova una voce.

Nel loro dialogo con le tele e i frammenti di Loredana — graffiati, scavati,

attraversati da gesti calligrafici o stratificazioni lievi — si crea una tensione

condivisa: quella tra superficie e profondità, tra ciò che resta e ciò che scivola via.

Anche Magda, con le sue ceramiche più leggere, porose, a volte quasi vegetali,

si muove in questo spazio dell’emersione sensibile: la sua è una pratica figurativa

che ha il coraggio della semplicità e la profondità delle cose fatte a mano,

lentamente, da chi conosce il respiro della terra.

In questa parete, i lavori di Magda si dispongono come tracce verticali, segni che

affiorano da una scrittura antica — non alfabetica, ma materica.

Sono superfici che hanno memoria, che si contraggono e si distendono, che

respirano secondo ritmi propri. Alcuni frammenti sembrano pagine strappate a

una narrazione geologica, altri evocano stratificazioni lente, sedimentazioni che il

tempo ha piegato con delicatezza.

Accanto a queste forme, le tele di Loredana riprendono lo stesso respiro, ma in

un’altra lingua: il colore, che qui non copre, ma rivela, costruisce per velature e

assenze, per vibrazioni che amplificano il gesto scultoreo.

È un dialogo di tensioni, tra bianco e nero, tra piega e superficie, tra ciò che sta

in piedi e ciò che si appoggia. E al centro, come un asse invisibile, il ritmo: del

fare, del comporre, del tempo che passa nella materia e la trasforma.

Del resto anche Loredana alla ceramica deve molto e molto restituisce.

La ceramica che plasma, che accoglie e che trasforma. Che unisce le mani, le

storie, i gesti — come ha unito lei, Michela, Linda e Magda, in un tempo che non

è mai solo cronologico, ma interiore.

Questo spazio — areapangeart — è nato da un gesto simile: dalla

determinazione nel seguire tracce silenziose, che sembrano lasciate sulla sabbia

dopo un soffio di vento. O dalla decisione di creare uno spazio che diventa di

volta in volta un contenitore di possibilità, di forze che lo abitano e che il gesto

artistico convoca, sublima, offre. O, ancora, dalla decisione, una volta, di donare

un tornio. Di accogliere un’allieva, e poi un’altra. Di ritrovare un’amica. Di creare

connessioni. Di rimanere fedeli al fuoco. Anche quando non lo si accende più con

le mani, ma lo si coltiva da dentro.

 

Ecco: questa mostra, queste opere, queste relazioni, sono figlie anche di quel

fuoco.

Del fuoco che cuoce, sì, ma anche di quello che trasforma, che spinge, che

erode, che leviga, che genera.

Un fuoco che si riconosce. Che passa da una persona all’altra.

E che — per nostra fortuna — continua ad ardere.

In questo spazio non si tratta solo di vedere, ma di percepire, di sentire, di entrare

in risonanza.

Di lasciare che siano le opere a dettare il ritmo.

Di ascoltare il tempo della materia, il tempo della trasformazione, il tempo

dell’incontro.

E a questo contribuiscono con pienezza i suoni e le composizioni di Omar Zoboli,

che attraversano ogni interstizio come un file rouge sottile e intenso.

Le superfici, qui, oltre a non essere mai solo ciò che appare, dicevamo, non sono

nemmeno mai davvero piatte.

Stratificano esperienze, storie personali, gesti ripetuti, scelte formali e informali,

un fare artigiano e insieme radicalmente poetico.

E in tutto questo — come spesso accade in questo luogo, che non è una galleria

come le altre, ma un laboratorio vivo di visioni e persone che si mettono in gioco

— si percepisce un’energia che non ha bisogno di essere spiegata: solo

attraversata.

E guardando questa sala, così abitata, così viva, penso che la cosa più bella sia

che queste opere — e chi le ha create — non sono solo esposte: sono presenti.

Vive, accanto a noi, con noi.

Perché, in fondo, è questo che rende uno spazio espositivo qualcosa di più: lala

capacità di far sentire il battito delle relazioni che lo hanno reso possibile.

Grazie a chi ha creato, a chi ha reso possibile questo incontro, e a chi — con uno

sguardo, con un silenzio — continuerà a farlo vivere.

Per dirla con nomi e cognomi, o meglio, solo nomi… Grazie a Michela, Linda,

Magda e Omar per averci accolti dentro questa vibrazione.

 

E grazie a Loredana, ancora una volta, per averla resa visibile, udibile, percepibile.